Quanto segue rappresenta una riflessione di gruppo su quanto emerso dalle serate di intervisione del 23/3/2020 e 24/3/2020.
Moderatori: Fabrizio Fino, Gaia Gragnano, Marta Grossi Partecipanti: Marta Bottini, Valentina Cavandoli, Greta Cazzaniga, Michela Launi, Silvia Martinelli, Martina Mazzetti, Anna Pozzoli, Giuditta Seassaro, Sara Sofisti.

Premessa: il panico della “prima settimana”
Fine febbraio 2020: dapprima ci era sembrato qualcosa di veloce, forte ma passeggero. Come un meteorite. Alla domanda “come mi comporto coi pazienti?” la risposta poteva ancora essere “sospendiamo per questa settimana e ci rivediamo tra 15 giorni”.
Poi i 15 giorni passano, la situazione si aggrava: cominciamo a capire che forse è necessario riorganizzare la nostra attività per un periodo più lungo, indefinito. Proponiamo ai pazienti di passare a Skype, qualcuno di loro ci anticipa. Ci troviamo a dover un po’ improvvisare! Cosa succede se perdo il paziente? Come faccio a garantirgli la privacy? Dove mi posiziono per ricevere i pazienti? Che “sfondo” scelgo?
Cominciamo ad utilizzare le chat di gruppo per chiedere consiglio ai colleghi: voi come vi organizzate? Quali sono le direttive che vi hanno dato a lavoro? Come ci comportiamo coi pazienti minorenni?
Le riflessioni che seguono nascono proprio dall’esigenza del clinico di creare un pensiero di gruppo, che possa essere generativo di nuove idee ma anche “contenitore” rassicurante... una rete di sicurezza durante questo periodo così diverso dalla “normalità”.
Quanto emerso non vuole essere un’indicazione su “come fare”, ma rappresenta piuttosto una raccolta di considerazioni nate dal lavoro coi nostri pazienti.
Il senso di angoscia
In questi giorni circola angoscia. Il clinico si trova nel suo salotto, passa velocemente da una seduta online all’altra e capita che si chieda “cosa sto facendo?”. La mente fa più fatica a restare lucida. Il gruppo riflette su come questo possa essere legato al cambiamento avvenuto anche nella propria analisi: non c’è più lo spazio fisico, la stanza d’analisi, un contenitore confortante. Ora il contenitore resta ma è meno strutturato.
Il setting che cambia
I pazienti non escono di casa – noi neanche.
Non c’è un uscire dal proprio spazio per entrare nello spazio ‘altro’ della terapia, in cui avviare una relazione diversa.
Si sente il setting più fragile, cambia il nostro modo di intervenire – vogliamo essere più presenti ma al contempo abbiamo paura che il tutto scivoli in ‘una telefonata, due chiacchiere’.
Tolto il contenitore esterno, ci si sente nudi.
Spesso lungo il percorso formativo ci è stato sottolineato il valore del setting interno. Oggi più che mai siamo chiamati ad esercitare questa funzione, affinando la nostra disposizione interna al lavoro clinico, laddove non possiamo più appellarci ai luoghi della cura (gli studi, i CPS, gli ospedali...).
Cosa avviene ora tra il paziente ed il clinico? Che forme acquisisce la stipula di un contratto terapeutico? Il gruppo porta alcuni esempi: per certi versi sembra che i pazienti si aspettino una maggiore flessibilità, “possiamo cambiare orario? Tanto anche lei è a casa, non le cambierà molto”. Il paziente adesso, per “dare buca” al clinico non lo chiama, o non risponde al telefono. Se da una parte il setting sembra farsi più sfumato, più difficile da definire, si riscontra per certi versi una maggiore cura da parte del paziente, che diversa co-costruttore del setting e prende parte attiva: si sceglie dove posizionarsi, si riordina quell’angolo di stanza, ci si prepara, si chiede ai familiari di poter restare in solitudine per quell’ora.
Bussare alla porta virtuale
Anche l’entrata – uscita dalla seduta è gestita in modo diverso, è da ridefinire. Chi chiama chi? Un paziente non chiama, lo si aspetta. È come un paziente che non si presenta alla seduta?
Magari sta aspettando che lo si chiami...quale significato può avere? Vuole essere cercato? Ha paura di chiamare e non trovare l’altro? Quali angosce può far nascere? Ci si adatta ai pazienti? Come gestire le invasioni? – il paziente in anticipo non è più nella sala d’aspetto, diventa magari una chiamata prima del tempo...

Il transfert – vicinanza lontana e lontananza vicina
Pazienti e clinici, analisti ed analizzandi, tutti stiamo vivendo immersi nella stessa emergenza. C’è qualcosa che accomuna fortemente, forse per la prima volta. I pazienti esordiscono chiedendo “e lei, dottore, come sta?”. Questa domanda è nuova; il gruppo si interroga su che significato possa assumere. Difficile trovare una risposta: forse bisognerebbe prendere in esame il caso specifico, cercando di capire quale struttura ci sia dietro.
Si tratta di “semplice” preoccupazione o di un’angoscia autentica? Il fatto che il mio terapeuta sia fallace, scalfibile, è qualcosa di rassicurante o di angosciante?
Humani nihil a me alienum puto
Una terapeuta sottolinea la dimensione umana della nuova relazione terapeutica, in cui ci si sente smossi a ‘rassicurare’ rispetto alla propria integrità fisica [sto bene, sono intera, sono viva] e anche a ricollegarsi a quello che sta succedendo fuori [è un momento difficile]. Le angosce dei pazienti risvegliano le angosce dei terapeuti. È difficile, richiede attenzione, non mischiarle. Si cerca di non cadere in una dinamica di eccessiva specularità.
Lo sguardo
Una collega che lavora a stretto contatto con gli adolescenti racconta di come le sue aspettative siano state in gran parte disattese: a differenza di quanto previsto, sono i suoi pazienti più giovani ad essere reticenti nei confronti della videochiamata, preferendo la classica telefonata. Proviamo a riflettere sulle possibili ragioni: qualche ragazza non vuole essere osservata senza trucco. Qualcun altro chiede alla psicologa di poterla guardare, senza però essere guardato, disattivando quindi la propria telecamera.
A questo punto diventa significativa anche la scelta del medium: ascoltarsi non è lo stesso che vedersi.
Il silenzio e la voce
Il silenzio è parte integrante e preziosa di un lavoro psicoterapico e psicoanalitico. Come si lavora col silenzio “virtuale”? Il gruppo riflette sulla difficoltà nel mantenere quelle pause silenziose di cui una seduta è costellata. Sembra che il nuovo setting a distanza costringa ad una sorta di riempimento, accorciando le pause. Eppure, c’è anche l’opposto, il paziente che non tollera i silenzi in studio li accetta da remoto – si sente nel suo mondo, nella sua stanza. Si è distanti ma nel proprio ambiente, la vicinanza – lontana può essere anche rassicurante.
Sensorialità
Ci si confronta con una nuova sensorialità:
la voce prende spazio, in alcuni momenti sembra l’unico ancoraggio all’analisi (personale) – è però voce riprodotta, non è la voce reale dell’altro
ci si accorge della mancanza degli odori, dei rumori
c’è quasi un “eccesso” di sguardo – l’occhio entra con violenza in spazi di solito inaccessibili. Lo sguardo che va sul mondo esterno rende più difficile esplorare il mondo interno? E ancora, ci guardiamo mentre facciamo terapia. Vediamo noi che facciamo terapia, sia come terapeuti che come pazienti. Ci guardiamo un po’ allo specchio quando facciamo terapia online...
Riflessioni sui pazienti gravi
Si discute insieme sulle esperienze cliniche con pazienti psicotici. Emerge un sostrato di “tranquillità”, intesa come pausa dall’angoscia. Sono numerosi gli esempi di pazienti che sono tranquillizzati dai decreti diffusi: “ora qualcuno mi dice cosa fare, quindi sono tranquilla”; “non sono più solo nel clima di terrore”. Cosa accade però davanti al paziente psicotico che teme l’invasione di una intercettazione? Skype mi garantirà una giusta protezione da questa contaminazione?

“stai a casa”, #tuttoandràbene...?
La società ci chiede “solo di stare a casa”. Ma cosa significa per alcuni dei nostri pazienti? Forse gli viene chiesto invece uno sforzo grande. A volte invece avviene il contrario: ‘Grazie dott.ssa, non ho bisogno di lei, io mi godo la quarantena’ ‘Il decreto è una regola, mi ha tranquillizzato, mi ha detto cosa fare’ ‘Mi sento meglio, non ho stimoli cui far fronte...’ Quali significati psicologici può assumere la condizione di quarantena? - ‘la quarantena è un accudimento’ – non devo fare niente, c’è un aspetto regressivo forte...posso stare nel mio pigiama e penso solo a dover mangiare. È un contenimento uterino, una realtà indifferenziata dove si perde la cognizione del tempo (giorni, ore, sedute...) - fuoriuscita di aspetti depressivi, appiattimento verso uno stato di non vita – vivo quando non vivo
Il gioco della terapia
Si osserva un potente ritorno alla casa d’origine, che contiene, che contrasta la solitudine, che rassicura. Le persone nel momento del bisogno corrono verso i treni, tornano al luogo Natale. Emerge un bisogno di rassicurazione, di protezione davanti ad un’angoscia che c’è, che non può essere negata. Un bisogno di tornare nella tana, nella casa d’infanzia, nella propria infanzia e nella propria istintualità... Questo ritorno è anche, per tanti pazienti, un ‘tornare a casa e poter giocare, potersi distrarre, divertire’. Un gioco che può anche essere il gioco della terapia: ‘facciamo che tu stai sdraiato sul tuo divano e io seduto sulla mia poltrona, e facciamo che questa è la nostra stanza d’analisi’.
Contenitori: le supervisioni su Skype
Alcune specificità del lavoro di equipe da remoto:
non tutti vedono tutti gli altri...i gruppi però sono grandi, come gestirlo?
spesso a queste équipe è riservato meno tempo che alle solite supervisioni.
L’utilità della riunione, però, rimane:
da un lato ci si sente supportati come professionisti [funzione simbolica]
dall’altro spesso vengono date indicazioni più pratico/cliniche [funzione pragmatica]
EMERGENZA – ostacoli alla relazione terapeutica
Riflessioni di una collega che svolge tirocinio in uno dei comuni maggiormente colpiti, dove molti servizi sono pressoché interrotti
Cosa succede se l’emergenza fa perdere il controllo di tutto il resto? Come viene protetto il lavoro clinico? Il blocco totale porta come conseguenza la comunicazione ai pazienti: ‘ci si rivede alla riapertura’. I terapeuti sentono l’esigenza di garantire una continuità con i pazienti, anche solo telefonica: come poterlo fare nel modo più adeguato possibile? C’è anche il problema della conclusione dei tirocini: finiremo i tirocini ma non ne abbiamo parlato con i pazienti. Quanto durerà questo non vedersi? Si può dare questa comunicazione al telefono? Può aver senso temporeggiare, attendere, magari diminuire il tempo del preavviso ma prediligere in questo momento la comunicazione di una relazione che tiene. Le istituzioni non sempre ci supportano in questi passaggi delicati. Il conflitto del clinico che si vorrebbe ‘opporre’ alle regole istituzionali – che cosa è più tutelante per quel paziente specifico?
...quel paziente specifico...
Con i bambini? Skype non è pensabile. Ma anche con i preadolescenti è molto complesso il discorso ‘da remoto’. Una soluzione può essere sentire i genitori: si cerca come si può a dare continuità, anche dove sembra non essere possibile. Si devono esplorare strade alternative – il clinico si sente fuori percorso, fuori rotta.
Si scopre la complessità del semplice ‘mantenere un contatto’.

Quando tutto sarà finito...
Tra quanto torneremo a fare quello che facevamo prima? Ci sarà il problema di tornare al vis a vis? Quanto sarà strano rivedersi... Magari qualcuno preferirebbe continuare così: alcuni pazienti esprimono il piacere di ‘fare le sedute da casa’ – come se essere nella propria comfort zone aiutasse a sentirsi a proprio agio. Persone diverse, reazioni diverse... L’evento esterno ha un effetto diverso su tutti.
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